Gratitudine / Gratitude

(For an English translation please scroll down)

Nella lingua inglese vi è un aggettivo molto bello, “humbling”, che descrive la sensazione di umiltà che si prova di fronte alle cose superiori. Qualche giorno fa ne ho avuto una splendida dimostrazione, e la sensazione è talmente bella che vorrei condividerla con voi.

Sul finire del secolo uno dei miei “cavalli di battaglia” era la celebre “Polonaise brillante précédée d’un Andante spianato” di Chopin. Ogni musicista ha in repertorio lavori cui assegna un significato particolare, non sempre legato a motivazioni musicali. Questo, per me, è uno di quelli: uno dei lavori che a suo tempo avevo fatto ascoltare a Shura Cherkassky (il quale ne dava una lettura puntualmente straordinaria), e che eseguivo spessissimo, quasi sempre come “gran finale”. Nel 2008 la incisi e nel 2010, l’anno del bicentenario chopiniano, la suonai un po’ovunque. Poi la vita mi portò verso altri lidi e differenti maestri, com’è giusto che sia.

Ora, una cosa divertente del mio lavoro è che quando arrivano inviti a suonare qua e là bisogna decidere che cosa suonare! Ognuno, ovviamente, lavora come vuole e come sa: questo scrivente s’è sempre rifiutato di suonare il medesimo programma (giammai nella stessa sala, neanche un pezzo solo!), e siccome alcuni degli inviti che ho ricevuto sono “recidivi”, beh, volevo venir fuori con qualcosa di ganzo. Dopo la valanga Scarlatti (quasi due anni di ininterrotto lavoro sul medesimo, pur geniale, maestro) ho avuto bisogno d’un paio di mesi per ritrovare quel minimo di orientamento musicale necessario a comporre i miei programmi con scienza e coscienza. Mi sono accorto che da tante stagioni non suonavo nulla di Chopin (non chiedetemi il perché: non lo so!), e la decisione di riprendere questo magnifico autore è stata facile, così come facile è stata la selezione del pezzo: se avessi suonato di nuovo Chopin, avrei dovuto giocoforza tornare alla Grande Polonaise.

A cagione di un metodo di studio ereditato da Shura, ho la fortuna di ritrovare velocemente nella mia memoria e nelle mie mani qualsiasi cosa abbia studiato, anche decenni fa, e questa Grande Polonaise non ha fatto eccezione: in tre o quattro giorni era lì; o, meglio, le note erano lì: qualcosa di misterioso mi faceva sentire scomodo, reo d’un atroce delitto che non riuscivo a mettere a fuoco. Va detto che la Polonaise è un pezzo piuttosto complesso: già l’enigmatico aggettivo “spianato” tinge il meraviglioso Andante di mistero (possibile che un maestro come Chopin chieda all’interprete di suonare in modo “spianato”, ossia “piatto”? Improbabile, mi sa), ma anche nella Polonaise vi sono sfumature di musica di difficile interpretazione. Anche in questo caso, l’aggettivo “brillante” può essere (e spesso lo è) fuorviante. Agli albori dell’Ottocento pianisti compositori come Pixis, Herz, Hummel, Czerny, Thalberg e compagnia bella avevano dato forma allo “stile brillante”: valanghe di scale, arpeggi, abbellimenti e fronzoli vari con i quali adornavano le loro Fantasie, Sonate, Concerti, Variazioni e mercanzia varia. Liszt e Chopin, i due indiscussi leoni della tastiera, in gioventù s’erano cimentati in questo stile varie volte, salvo poi involarsi verso ben più nobili manifestazioni del loro straordinario e precoce talento. Chopin, però, vi aveva dato il colpo di coda proprio con questa Polonaise, concepita come pezzo da concerto per pianoforte con accompagnamento d’orchestra (in verità, l’orchestra ha un ruolo totalmente secondario, e la Polonaise si esegue ben più spesso come pezzo solistico). Sappiamo che il giovane Chopin era affascinato dai cantanti d’opera, e che ne traeva sicuri insegnamenti per il suo personalissimo fraseggiare. In quest’opera il ventunenne maestro coniuga dunque il dettato lirico della coloratura allo smalto virtuosistico dello stile brillante, raggiungendo picchi d’espressione musicale piuttosto alti. La difficoltà principale, almeno secondo me, sta appunto nel non tralasciare l’aspetto cantabile delle varie figure, nel renderle affini al canto lirico anziché a impressionanti ma tutto sommato noiose raffiche di note, e rendere il pezzo con il giusto equilibrio d’intenti. Ebbene, ritrovate le mie note mi sono accorto che la mia lettura era ondivaga. Alla ricerca di quel benedetto equilibrio, mi inerpicavo su sentieri sempre più irti ed il risultato era una specie di minestrone sconnesso e addirittura caotico. Non ci trovavo il verso: ora troppo lento, ora troppo lesto, qui troppo forte, là troppo quieto… A vent’anni avrei risolto il problema rapidamente: avrei atteso il ritorno di Shura da uno dei suoi giri di concerti (che a volte duravano mesi), gli avrei fatto sentire il mio minestrone, e lui m’avrebbe detto un paio di cosette delle quali avrei fatto tesoro. Ma Shura non c’è più da tanti anni. Dopo di lui non mi sono sentito di andare a lezione da nessun altro, e in tutto questo tempo sono diventato il (pur modesto) maestro di me stesso, cercando di ascoltare quel che faccio ed esercitando un feroce senso critico (gli è l’unica maniera…). Stavolta, però, ero in serie difficoltà. Ed è qui che, voltando pagina, mi accorgo ancora una volta di quanto siano privilegiati la mia vita ed i miei affetti.

Quando, dodicenne, mi affacciai sul mondo del pianoforte i miei genitori mi ragalarono gli abbonamenti alle stegioni di concerti di Lucca, Pisa e Livorno. In quegli anni ascoltai di tutto, solisti grandi e piccoli, orchestre meravigliose, direttori, cantanti. Certi concerti, ma soprattutto certi musici, mi fecero tale impressione da rimanere scolpiti nella mia memoria quasi come nella pietra, ed uno di questi fu un certo pianista che ascoltai in un meraviglioso concerto nel Camposanto Monumentale di Pisa, la mia città. La vita, a volte, è curiosa: sono passati decenni da quell’occasione, e nel frattempo questo pianista è diventato mio amico. Non lo nomino perché è una persona molto privata, ma conviene dire che oltre ad una eccellente attività di concertista questo signore ha lavorato moltissimo con i cantanti, ed ha maturato anche una notevole esperienza di direttore d’orchestra. Avrete capito che si tratta di un musicista completo, uno di quegli artisti che non si fermano alle mere note ma vanno oltre, scavano, indagano, e conoscono la Musica in ogni suo minimo dettaglio. Una razza in estinzione, forse, ma finché esistono questi individui è lecito sperare. La settimana scorsa, dunque, mi sono deciso a rompergli l’anima e gli ho chiesto lumi su questa Grande Polonaise. Sono andato a trovarlo, ed ho suonato per lui. Sono andato, dopo decenni, “a lezione”! La prima cosa che mi ha detto è stata che, sotto il profilo tecnico, non aveva nulla da dire (e quando lo ho raccontato a mia moglie Debra, ella mia ha risposto con innegabile logica: “e ci credo, dopo tutte le volte che la hai suonata in pubblico, quella Polonaise”) ma poi, discorrendo sulle varie questioni interpretative, è venuta fuori tutta l’esperienza e l’umanità del personaggio. Da un tentativo d’orchestrazione dell’Andante (immaginare le figure della mano sinistra come fossero violoncelli), al sottolineare come certe note melodiche siano il registro di cambio delle voci di soprano, e che quindi possano essere “illuminate” (termine suo, meraviglioso) con più decisione, fino alla realizzazione apparentemente lapalissiana di un rigore ritmico della Polonaise che, a cagione delle diavolerie della mano destra, spesso si dissolveva in un poco convincente zum-paa-pa. Dopo due ore di lezione, son tornato a casa spossato (continua a fare un gran caldo, ed a suonare si fa fatica) ma ho voluto “ripassare” tutte le osservazioni del maestro prima di coricarmi, salvo dimenticarne qualcuna. Ed ho fatto bene: da giorni studio la mia Polonaise (si, a questo punto è “mia”, nel senso che la mia lettura ora ha un’impronta personale, rispettosissima del testo ma pur sempre originale) con rinnovati entusiasmo, vigore e convinzione. Ovviamente, non ho la minima idea di come riuscirò a suonarla ai concerti. Cercherò, come sempre, di fare del mio meglio ma l’alea è nella natura della professione: a volte funziona, altre no, e l’unica cosa da fare è studiare, studiare, studiare, e quando ci si crede pronti continuare a studiare per poi rendersi conto di quanto si è somari. E, mentre ammaestro le mie mani come faccio sempre, mi frullano in testa immagini di violoncelli che suonano meravigliosamente quegli arpeggi di Sol maggiore dell’Andante, di cantanti che sottolineano con infinita grazia il cambio di registro, di pomposi direttori che incitano la banda a scandire il ritmo di polacca con decisione. E, ogni tanto, un misterioso faretto illumina una nota o l’altra. L’altro giorno ho guardato dietro una di queste note. C’era scritto: “Grazie, Maestro”!

Ecco, questa è stata un’esperienza molto “humbling”. Impagabile.

Humbling” is a very beautiful adjective, describing the sensation of humility which we feel before superior things. A few days ago I had a splendid demonstration of its power, and the feeling is so profound that I would like to share it with you.

Towards the end of the last century, Chopin’s celebrated “Andante Spianato and Grand Polonaise Brillante” was one of my war horses. Every musician has in his/her repertoire a number of works to which hold special significance is assigned, and not necessarily for musical reasons. This Polonaise is one of those, for me: eons ago I played it for Shura Cherkassky (who used to give a punctually extraordinary reading of it), and I played it very often – usually as a “grand finale”. In 2008 I recorded it, and in 2010 (the year of Chopin bicentenary) I played it practically everywhere. Later, inevitably, life brought me to towards more exotic shores and different Maestros.

Now, one of the most intriguing things inherent to my profession is that when you ge an invitation to play you must decide what to play! Each one of us, obviously, works in different ways: I have always disliked to repeat programmes, and in the same hall I flatly refuse to play the same work again, even after years. Thus, as some of the invites I recently received are return engagements, I needed to come up with something novel. After the Scarlatti avalanche (almost two years of uninterrupted work on the same composer), I needed a couple of months to regain that minumum of orientation which I felt was necessary to compose my programmes conscientiously. I realised that I had not played any Chopin for several seasons (please don’t ask why: I simply do not know!), and thus the decision to revive this magnificent composer was easy enough to take, as it was the selection of the piece: if I were to play Chopin again, the choice would have had to fall upon the Grand Polonaise.

Practicing with a method I inherited from Shura, I am lucky enought to recall both in my memory and in my fingers practically everything I have played – even decades ago – and this Grand Polonaise is no exception: in three or four days there she was or, rather, the notes were there. Something mysterious made me uncomfortable, guilty of a terrible musical crime that I could not define clearly. It must be said that the Polonaise is a rather complex work: already the adjective “Spianato” tints the Andante with an aurs of intrigue (“spianato” means “flattened”: is it truly possible that a composer of Chopin’s ilk asks his interpreter to play “flatly”? Highly improbable, I believe), but the Polonaise also features certain charcateristics which render its interpretation problematic. In this case, too, the adjective “brillante” can be misleading. At the dawn of the Romantic era pianist-composers such as Pixis, Herz, Hummel, Czerny, Thalberg and the likes had created the “brillante style”: avalanches of scales, arpeggios, embellishments and various frills with which they encrusted their Fantasias, Sonatas, Concertos, Variations and so on. Liszt and Chopin, the two undisputed giants of the keyboard, frequented this style copiously in their youth prior to embark on much more noble manifestations of their extraordinary and precocious talent. Chopin, however, had abandoned the “stile brillante” with a final flick of his tail, embodied in this Polonaise, which was conceived as a grand concert piece for piano with orchestral accompaniment (in truth the orchestra plays such a secondary role that the piece is much more often performed without accompaniment).

We know that the youngChopin was fascinated by opera singers, and that from them he drew much inspiration for his highly personal phrasing. In this work the 21 years old maestro manages to espouse the charged lyricism of coloratura sopranos with the virtuosic enamel that the brilliant style requires, and reaches impressive pinnacles of musical expression. The main difficulty, at least in my opinion, lies in the emphatization of the lyrical figures, in the attempt to render them more similar to singing than to impressive but ultimately boring fusillades of notes, and to play the whole work with a judicious equilibrium.

Thus, as soon as I found my notes I realised that my reading of them was fluctuating. In search of that elusive equilibrium, I kept going in ever more disparate directions and the result was a kind of vegetable soup in which nothing appeared to make sense. I could not find a way out of it: too slow, too fast, too loud, too quiet… When I was twenty I would have solved the problem rapidly: I would have waited for Shura’s return from one of his concert tours (which, sometimes, were months long), I would have played the piece for him and he would have told me a couple of things which I would have treasured and adopted. But, sadly, Shura departed long ago. After his patronage I did not go to play for anybody else, and in all this time I have became the (modest) maestro of myself, and I have tried to listen to what I do at the piano deploying a ferocious self criticism (it is the only way, I believe). This time, though, I was sailing in rough seas.

It is here, turning the page, that I once again realise how privileged my life and my affections are.

When I was 12 I began playing the piano, and my parents gifted me with season tickets to the concert series in Pisa, Lucca adn Livorno. In those years I had the opportunity to listen to many different thing, great adn small soloists, marvellous orchestras, conductors, singers. Certain concerts, but especially certain musicians, left lasting impressions on my mind as if etched in stone, and one of these was a pianist whom I heard in a magnificent recital at the Camposanto Monumentale in the field of miracles in Pisa, my hometown. Life, sometimes, is curious: decades have gone by, and this pianist and I have become friends in the interim. I do not mention him, as he is an intensely private person, but it is worth noticing that as well as an egregious career as a concert pianist he worked tirelessly with singers, and ammassed a considerable experience as an orchestral conductor. You will realise that I am talking about a complete musician, one of those artists who do not stop at the mere notes but investigate farther; they dig, search, and know Music in every infinitesimal detail. A dying breed, perhaps, but until these individual exists it is worth hoping in a better future.

Last week I decided to bother him, and I asked his opinion about the Grand Polonaise. I went to his home, and I played for him. After decades, I went for a “lesson”! The first thing he told me was that, under the technical aspect, he had nothing to say (and when I told this to my wife Debra she replied with unquestinable logic: “of course! After all the times you performed that Polonaise”), but then, examining the various interpretative aspects, all his experience and humanity came forth. From an attempt to orchestrate the Andante (imagining the undulating left hand figurations as if played by a section of cellos), to the remark that certain melodic notes are the change of registers for Soprano voices, and that can thus by “illuminated” (his marvellous word) with more conviction, until the apparently obvious realization that the typical rhythmical rigour of the Polonaise can, without due attention, be obscured by the right hand virtuoso figurations, and turn into a rather undignified “zoom-pah-pah”.

After two hours I caem home extremely tired (it is uncharacteristially hot in Tuscany, and playing is more taxing than usual), but I needed to go over all of the Maestro’s observations prior to getting some rest, lest forgetting anything. It was a good decision: since days ago I study my Polonaise (yes, at this point it is “mine” in the sense that my reading of it now has a personal imprint, respectful of the text but intimate nonetheless) with renewed enthusiasm, energy and conviction. Obviously, I have absolutely no idea of how it will play out at concerts. I will try, as always, to give my best. But an element of chance is an integral part of the profession: sometimes it works, others not at all, and the only thing to do is to practice, practice, practice, and when we think that we are ready practice some more in order to finally realise how ignorant we still are. And, as I train my hands as I always do, I see images of cellos playing marvellously these G major arpeggios, of singers who underline with infinite grace their change of register,

Dopo due ore di lezione, son tornato a casa spossato (continua a fare un gran caldo, ed a suonare si fa fatica) ma ho voluto “ripassare” tutte le osservazioni del maestro prima di coricarmi, salvo dimenticarne qualcuna. Ed ho fatto bene: da giorni studio la mia Polonaise (si, a questo punto è “mia”, nel senso che la mia lettura ora ha un’impronta personale, rispettosissima del testo ma pur sempre originale) con rinnovati entusiasmo, vigore e convinzione. Ovviamente, non ho la minima idea di come riuscirò a suonarla ai concerti. Cercherò, come sempre, di fare del mio meglio ma l’alea è nella natura della professione: a volte funziona, altre no, e l’unica cosa da fare è studiare, studiare, studiare, e quando ci si crede pronti continuare a studiare per poi rendersi conto di quanto si è somari. E, mentre ammaestro le mie mani come faccio sempre, mi frullano in testa immagini di violoncelli che suonano meravigliosamente quegli arpeggi di Sol maggiore dell’Andante, di cantanti che sottolineano con infinita grazia il cambio di registro, diof pompous band leaders who incite the orchestra to beat the Polonaise rhythm with conviction. And, every so often, a mysterious spotlight illuminates one or the other note. The other day I went and looked behind one of these. There was a little inscription, which read “Thank you, Maestro”.

A very hunbling experience, indeed. Priceless.

IT TAKES TWO TO TANGO

Tango Dancers by Jack Vettriano

IT TAKES TWO TO TANGO.

Perhaps it is the company I keep, but recently I have been pestered with questions about the “meaning” of music in general and piano performance in particular. I am definitely not qualified to answer the first, but with the second I may have something to offer… While giving an interview to an astute journalist in Germany some weeks ago, an interesting question arose as to the role of the interpreter versus that of the listener in the making of a musical interpretation. With the sizable exception of sound recordings, where so much can happen behind closed doors to the blissflul ignorance of the listener, live music making implies an emotional participation on the part of the listener also. A typical piano recital will have offerings from different eras, styles, and emotional implications. It is virtually impossible that a whole audience will have the same approach and reaction to such diversity; thus, it is euqally impossible to reach an audience in its entirety! In our age of overblown publicity and reverence to appearances, charisma is half the battle: certain people have a certain aura about themselves that irradiates an impression of grandeur from the moment they walk on the stage. Significantly, those present will remember a great musical event – irrespectively of what happened on stage! Others, of more modest demeanour, will suffer the reverse process: perhaps their playing is magnificent, but a lack of stage presence will lessen the audience’s perception and its subsequent memory of the event. So far, (not) so good. Musically, this balancing act is equally palpable. You could do devilish things on a platform, but if your audience is not in the mood for what you are doing, I’m afraid your concert will be half amiss. It takes two to tango, and if left alone the interpreter can do next to nothing in this respect but pour his heart into whatever is in the programme and hope for the best! When it works, when you can reach an audience to the full of music’s marvellous potential, something magical happens, and perhaps a great interpretation materialises itself. I am convinced that we are not meant to understand why this happens. If we did, it would not be magical. And it definitely would not be as exciting for both players and listeners alike.

Forse è a causa della compagnia che intrattengo, ma recentemente sono stato bombardato di domande sul “significato” della musica in generale e delle interpretazioni al pianoforte in particolare. Di sicuro non sono qualificato per rispondere alle prime, ma forse sulle seconde ho qualcosa da dire… Rilasciando una intervista ad un astuto giornalista tedesco, qualche settimana fa, è venuta fuori una questione interessante sul ruolo dell’interprete rispetto a quello dell’ascoltatore nella creazione di una interpretazione musicale. Con la notevole eccezione delle registrazioni audio, dove molto accade a porte chiuse, la musica dal vivo implica anche una partecipazione emotiva da parte del pubblico. Un recital tipico presenterà lavori di epoche, stili ed emotività diverse, e per questo è praticamente impossibile che un’intera platea abbia il medesimo approccio a tanta diversità. Ne consegue che è praticamente impossibile raggiungere l’intera platea! In quesa era di pubblicità esagerata e di riverenza verso le apparenze, il carisma è metà dell’opera: certi musicisti hanno un’aura di grandezza indiscutibile, percepibile dal momento in cui entrano in scena. Dei loro concerti, il pubblico ricorderà un grande evento musicale – indipendentemente da quello che è successo sul palcoscenico! Altri, dal comportamento più modesto, soffrono il processo opposto: magari suonano magnificamente, ma l’assenza di carisma sminuisce il loro effetto sul pubblico e la memoria che quest’ultimo serberà dell’evento. Fin qui, tutto (mica tanto) bene. Musicalmente, questo equilibrismo emotivo è ugualmente palpabile. Puoi suonare come un demonio, ma se il tuo pubblico non è sulla tua stessa lunghezza d’onda, ohimé, il tuo concerto sarà un mezzo fiasco. Per ballare bisogna essere in due, e se l’interprete è lasciato solo c’è ben altro ch’egli possa fare ma suonare con passione il suo programma e sperare in bene. Quando funziona, quando raggiungi il tuo pubblico con la pienezza del meraviglioso potenziale della musica, succede qualcosa di magico, e forse è così che nascono le grandi interpretazioni. Sono convinto che non ci sia bisogno di capire poerché, né come ciò avvenga. Se lo facessimo, scomparirebbe la magia. E di sicuro tutto sarebbe meno entusiasmante sia per l’interprete che per il suo pubblico.

AART VAN DER WAL ON BACH-BUSONI: “MONUMENTAL RENDITIONS OF MONUMENTAL MUSIC”

Signor Aart van der Wal wrote a beautiful review of the Bach-Busoni complete transcription release on Opus Klassiek. Read it in Dutch here: http://www.opusklassiek.nl/cd-recensies/cd-aw/bach_busoni01.htm or keep reading for an English translation (courtesy of Stephen Baggaley).

BACH-BUSONI COMPLETE TRANSCRIPTIONS

Ferruccio Busoni (1866-1924) has a reputation both as composer and pianist to recognise: the critically acclaimed Italian was known as an innovative composer and virtuoso on the keyboard. Many have even regarded this son of an Italian clarinetist and a German pianist (he did not inherit his talent from a stranger) as the successor of Franz Liszt.

His great love for Bach had awoken already in his childhood, when in the Busoni household the young scion received intensive music lessons. It was his father who passed on to Ferruccio a love for German music. The child’s enormous musical talent brought him as a seven year old to the concert stage, after which he gradually broadened his field of interest, not least through his music studies in Austria.

Ferruccio eventually made a name for himself as a teacher and his talent brought him to Leipzig, Helsinki, Moscow, New York and Boston. As a concert pianist he especially favoured the music of Mozart, Brahms and Liszt. He met Grieg, Tchaikovsky and Mahler. Finally based as a conductor in Berlin (he married the daughter of a Swedish sculptor in 1894), he dared to put the “bold” music of Bartók and Schoenberg on the program and in 1906 he wrote in his essay “Entwurf einer neuen Ästhetik der Tonkunst” (Sketch for A New Aesthetic of Music) that muddling on the well-trodden paths had to come to an end and room had to be made for a new tone system. This was not exactly appreciated in certain influential circles. Amongst those was Hans Pfitzner, who saw the new movement as a threat to the healthy development of musical works (Futuristengefahr). Arnold Schoenberg was receiving sharp criticism during that time.

Busoni’s compositions did not come under as much fire, since he strove, as he himself dubbed it, to pursue the what he called “junge Klassizität” (literally ‘young (ie new or reborn) classicism’), with one of the most striking examples being the Berceuse élégiaque composed in 1909 and first conducted by Gustav Mahler. A year later came his Fantasia Contrappuntistica, much more than just a wink to his great exemplar, Johann Sebastian Bach. This principle also led him to the idea that there was nothing wrong with the adaptation of early music. On the contrary to Busoni there was no significant difference between the adaptation or the interpretation of a piece. In both cases, he thought that especially because of such adaptation, the original character of this music was brought back to the listener, a somewhat strange position that appeared to be granted only a short life and is certainly endorsed today by virtually nobody. It has, however, yielded interesting music as is evidenced by these two CDs that contain the complete Bach-Busoni transcriptions.

Busoni was a great connoisseur of Bach’s music and especially of his keyboard and organ works (as a pianist Busoni regularly performed many of Bach’s works). The question always and ever is, how far does an adaptation affect the essence, the character of the original, at least keeping in mind the assumption that a transcription can generally never improve on the original work. Regarding the transcription of Bach’s organ works, the knife obviously cuts with both sides: the transcription is not only meant for a different instrument, but there is also the question of the relocation of the performance, in this case from the church to other areas, such as concert hall, living room or some other place.

That must have been Busoni’s focus. His great qualities as a composer and pianist, as it were, stood guarantor for the integrity of his work as editor. Certainly, a piano is not an organ, but Busoni succeeded indeed on the one hand, to leave the uniqueness of Bach’s work alone, that is to say, he did not lift it out of its original context, and on the other hand, he created a transcription that in itself is unique. Two different forms of uniqueness that seamlessly merge. From this perspective, the transcription of the famous Chaconne is a bit of an odd one out, at least in my opinion. Because I feel that, in spite of the many more or less successful attempts in that direction (including that of Schumann), the “composed violin-like nature” of the work is not transferable to any other instrument.

The performance by the Italian pianist Sandro Ivo Bartoli excels in stylish articulation, rhythmic precision, very beautiful phrasing, with both hands in perfect balance (it goes without saying that the musical density of the left hand should often be dominant in the performance of these works, and indeed it is here). These are monumental renditions of monumental music, and they are also very beautifully recorded. The possibility of different interpretations is evidenced by other pianists, including Alfred Brendel (Philips) who, for example, does not hesitate to bring a certain insistence in the agogic accents and who ‘fetches’ a certain monumentality particularly from the slow tempi. Bartoli’s “romantic touch” is logical because it flows forth inextricably from these Busoni transcriptions. It is to Bartoli’s credit that he has provided clear insight in his sleevenotes. These are just as elaborate as his playing, that is in the best sense of the word.

Aart van der Wal, Opus Klassiek, July 2014